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Carte salzburger, la storia e le caratteristiche di queste carte

Le carte salzburger (letteralmente “salisburghesi” o carte austriache) rappresentano l’unico mazzo regionale usato in Italia a semi tedeschi. Vengono utilizzate soprattutto in Austria, in Baviera e in Liechtenstein ma sono diffuse anche in Alto Adige, nelle regioni del Tirolo e della Ladinia, dove vengono utilizzate per alcuni giochi tipici delle valli alpine a cavallo tra Italia, Austria e Germania.

Storia delle carte salisburghesi

Le origini delle carte salzburger affondano le proprie radici nei mazzi tedeschi di metà Ottocento; il Salzburger Bild (ossia il mazzo di Salisburgo), deriva dalle carte bavaresi e tirolesi antiche; queste ultime, a loro volta, discendono dal cosiddetto “mazzo di Augsburg”. Il mazzo salisburghese venne prodotto a partire dal 1850 circa, con le spade degli Unter e degli Ober dritte, mentre nei mazzi moderni hanno le lame curve; questa modifica del disegno risale alla metà degli anni Ottanta del 19° secolo e fu introdotta, con tutta probabilità, da una fabbrica viennese, la Titze&Schinkay. Prima dell’annessione della provincia di Bolzano all’Italia, il bollo veniva apposto sull’8 di campanelli; dopo il 1862, la marca avrebbe dovuto essere apposta sull’asso di cuori o di denari ma, poiché nel mazzo salzburger gli assi non sono presenti, si decise di lasciare il contrassegno nella sua posizione originaria fino al 1972. A partire dal 1860 circa, le carte salisburghesi cominciarono ad essere vendute anche in Tirolo, dove si diffusero in luogo di quelle tirolesi, per poi imporsi anche in area altoatesina, dove sono utilizzate ancora oggi. Inizialmente, il mazzo contava 36 carte ma, a partire dagli anni Ottanta, vennero aggiunti quattro numerali per stampare una versione da 40 carte, usata solo in Italia.

Caratteristiche delle carte salzburger

Noto anche come “sudtirolese”, il mazzo salisburghese viene indicato anche come “Einfachdeutsch(“tedesche a figura intera”), per distinguerle da quelle bavaresi, a figure doppie. È formato da 36 carte nelle versioni diffuse oltralpe e 40 carte in quella stampata e utilizzata oggi in Italia. I semi sono quattro: cuori (herz), sonagli o palle (schellen), ghiande (eichel) e foglie; quest’ultimo viene chiamato, in tedesco, con molti nomi diversi, tra i quali laub (foglia), gras (erba), grün (verde), schippen (pala) o pik (picche). Ogni seme conta dieci carte; di queste, tre sono figure, ossia il fante minore o sottufficiale (Uber), il fante maggiore o ufficiale (Ober) e il re, rappresentati a figura intera. Le numerali, invece, vanno dal 2 (daus) al 9, ma mancano l’asso, il 3 e il 4. Dal punto di vista iconografico, si tratta di carte molto colorate, dai toni sgargianti (soprattutto verde, rosso e giallo), e ricche di dettagli, non solo nella caratterizzazione delle figure. Il mazzo salisburghese, infatti, presenta molte carte peculiari:
  • Il 6 di sonagli, chiamato “Weli” in quanto contrassegnato dall’omonima scritta; in alcuni giochi funge da “matta”. Tra le due file di sonagli figurano anche i simboli di altri due semi, un cuore e una ghianda;
  • L’Ober di cuori: indossa un cappello a due punte ed è raffigurato nell’atto di sguainare la spada;
  • I re sono rappresentati assisi sul trono; ai piedi di quello di campanelli si trova lo stemma di Salisburgo (un castello turrito con il portone aperto);
  • Nel daus di ghiande è raffigurato Bacco a cavalcioni su una botte, immagine ereditata da un mazzo ungherese (di Sopron o di Ödenburg) scomparso nell’Ottocento;
  • Nel daus di foglie, invece, figurano un unicorno, un cervo e un’aquila.

Giochi con le carte salzburger

Le carte salisburghesi possono essere utilizzate per svariati giochi tipici regionali. Uno di questo è il Watten (in Ladinia viene chiamato “batadù” o “baten”), vagamente assimilabile alla Briscola; molto popolare in Alto Adige, si gioca solitamente in quattro con un mazzo da 33 carte. Il mazziere distribuisce cinque carte coperte a ciascun giocatore; quello alla sua sinistra – dopo aver visto le carte – sceglie un valore (Schlag), poi il mazziere fa altrettanto, individuando un seme (simile a quello di Briscola) che viene denominato Triumpf (“trionfo”). Giocatore e mazziere fissano così il valore e il seme che prevalgono in quella mano, ad insaputa degli altri giocatori. A questo punto, gli sfidanti calano le carte: la coppia che ha quelle migliori effettua la presa (Stich). La gerarchia delle carte è:
  • Guate (“buonissima”), la carta di maggior valore della mano e il seme chiamato dal mazziere;
  • Rechte (“buona”); non si chiama se il Gaute scelto è il Weli;
  • Le carte del valore chiamato all’inizio;
  • Le carte del seme scelto dal mazziere, in ordine decrescente;
  • Tutte le altre carte, in ordine decrescente.
L’obiettivo del gioco è totalizzare tre prese su cinque; in genere vince la coppia che raggiunge per prima i 18 punti. Gli altri giochi praticabili con le carte salzburger sono lo Jass e la Bazzica. Il primo ha origini molto antiche, somiglia al Tressette e si gioca con un mazzo da 36; il secondo, invece, si sviluppa in due fasi, mescolando le regole di presa della Briscola e del Tressette.

Cosa sapere sulle carte sarde: dalla storia fino ai giochi

Le carte sarde rientrano tra i mazzi regionali italiani di seme spagnolo, così come le napoletane e le piacentine (molto comuni in tutta la Regione); presentano molte affinità con le carte in uso in Spagna nell’Ottocento, tradendo i forti legami storici e culturali tra l’isola e la regione iberica.

Storia delle carte sarde

Il disegno delle carte sarde risale agli inizi dell’Ottocento; in particolare, deriva da quello del mazzo spagnolo inciso da José Martínez de Castro e prodotto da Clemente de Roxas nel 1810. Stampato fino alla fine del secolo, questo mazzo contava 48 carte e si differenziava dai precedenti per il disegno ricco e dettagliato che prevedeva una raffigurazione accurata degli sfondi alle spalle delle figure. Le carte prodotte da de Roxas vennero copiate – in maniera non troppo precisa – da diversi stampatori spagnoli, inclusi alcuni fabbricanti di Barcellona, dove il mazzo si diffuse attorno alla metà del secolo (1850 circa). Fu probabilmente dalla città catalana che le carte spagnole, seppur con un disegno molto semplificato, giunsero fino in Sardegna.

Le caratteristiche delle carte da gioco sarde

Il mazzo sardo conta 40 carte, divise in quattro semi, detti is mertzas: coppe (cupas), denari (oros), bastoni (bastos, come in spagnolo) e spade (ispadas). Ogni seme è formato da sette carte numerali e tre figure: il fante (suta, in dialetto sardo), il cavaliere (cuaddo, ossia ‘cavallo’) e il re, tutti rappresentati a figura intera. Ogni carta è contrassegnata con un indice, situato nell’angolo in alto a destra e in quello in basso a sinistra; le numerali sono marcate con le cifre dall’1 al 7 mentre sulle figure gli indici sono 10, 11 e 12, un retaggio del mazzo spagnolo dal quale deriva quello sardo. Anche il disegno, seppur semplificato, conserva molti tratti chiaramente derivati dalle carte spagnole: il 4 di denari (così come i 4 degli altri semi), ad esempio, prevede una vignetta all’interno dello spazio individuato dalle quattro monete che simboleggiano il seme. Quella sulle carte sarde raffigura una donna e un uomo con un elmo sdraiati davanti ad un cespuglio; sui mazzi spagnoli ottocenteschi, invece, la raffigurazione è molto più complessa e dettagliata. Analogamente, anche l’asso di denari appare molto più semplice nella versione presente sulle carte sarde, in quanto costituito semplicemente da una moneta d’oro con all’interno un sole e il nome del fabbricante inscritto nella corona esterna. Sulla carta originaria spagnola, invece, è raffigurata una grande moneta, sulla cui faccia sono raffigurate due donne che rappresentano il commercio e la navigazione. Dietro la moneta, sormontata da una corona, ci sono diverse bandiere mentre alla base si trovano una cornucopia, un caduceo e un’ancora. Anche l’asso di bastoni – un putto che sorregge una verga – è molto simile: la posa e il drappo rosso che ricopre il pube sono praticamente identici, così come l’arco e le frecce ai piedi della figura. Lo stesso dicasi per l’asso di spade. Per il resto, l’iconografia non si discosta molto da quella del mazzo spagnolo di de Roxas: le figure mantengono le stesse pose, specie nel modo in cui reggono i simboli dei semi, con la sola differenza che lo sfondo è meno dettagliato o lasciato in bianco. Le vignette che decorano i 4 sono anch’essi molto simili: Bacco figura nel 4 di coppe, nel 4 di spade si ha una scena di battaglia tra due duellanti mentre sul 4 di bastoni è disegnata una figura seduta, con alle spalle due torri e un leone. Infine, per quanto riguarda i simboli dei semi, i denari sono monete (con sopra raffigurate delle teste), le spade sono raffigurate come spade da lato cinquecentesche con l’elsa riccamente decorata mentre i bastoni si presentano come verghe piuttosto tozze con piccoli germogli fogliati sui lati.

Giochi con le carte sarde

Con le carte sarde è possibile fare qualsiasi gioco che richieda un mazzo da 40 carte, inclusi quelli più popolari come la Scopa, lo Scopone, la Briscola e il Tressette. A questi si aggiungono giochi e varianti regionali. Uno dei più tipici è la Mariglia, derivato da un gioco spagnolo (Hombre) nato nel Seicento e diffusosi sull’isola attraverso la Maddalena e la Gallura. Noto anche come “bridge sardo”, si gioca in doppia coppia (due contro due); vince quella che raggiunge per prima il punteggio stabilito all’inizio della partita (di solito, 45 o 71). Il mazziere invita un giocatore a smazzare, poi ricompone il mazzo mostrando l’ultima carta, che diviene il “Trionfo”. Poi, a ciascun giocatore vengono distribuite cinque carte coperte; il mazziere chiede al giocatore alla sua sinistra di smazzare nuovamente, lasciando sul tavolo non più di cinque carte. Quello alla destra del mazziere gira una carta: se è dello stesso seme del “Trionfo”, le carte restanti si distribuiscono scoperte, completando la distribuzione. Il gioco si svolge in maniera simile al poker e al black jack. Un altro gioco di carte praticato con le carte sarde è il Truco (o “Trucco”), giocato soprattutto a Paulilatino, un comune in provincia di Oristano.

Storia e caratteristiche delle carte trentine

Le carte trentine, diffuse principalmente in Trentino-Alto Adige, sono un mazzo di carte regionali di seme italiano, molto simili alle triestine ed alle trevisane, sia per il disegno – caratterizzato dalle spade a forma di scimitarra incurvata – che per i colori.

Storia delle carte trentine

Prodotte fin dal 16° secolo, le carte trentine derivano da quelle trevisane, in uso in tutto il Veneto. Un esemplare di mazzo trentino risalente al Cinquecento è custodito a Oxford, presso la Bodleian Library; esso rappresenta probabilmente il mazzo di carte regionali italiane più antiche stampate con il disegno originario. Da allora, l’iconografia e lo stile delle carte trentine ha subito alcune variazioni, mantenendo anche alcune peculiarità legate alle vicende storiche della zona; rispetto agli altri mazzi regionali, infatti, quello trentino non aveva il bollo sull’asso di denari dopo il 1862 in quanto, all’epoca, il Trentino faceva ancora parte dell’Impero austriaco. Quando le province di Trento e Bolzano vennero annesse al Regno d’Italia nel 1918, il bollo conservò la propria posizione originaria; in realtà, alcuni mazzi stampati alla fine dell’Ottocento, è posto sull’asso di denari mentre il marchio dello stampatore figura sulla carta del re di denari. Su quest’ultima, fino al 1972, veniva apposto il bollo italiano assieme al nome dello stampatore. Per quanto riguarda l’iconografia e il disegno, le variazioni più significative si registrano dopo il 1940: non ci sono più le decorazioni sulle numerali, le coppe sono chiuse in alto (mentre prima contenevano delle decorazioni floreali), i bastoni sono più spessi e le spade non hanno più la punta. Nel corso del Novecento, alcuni stampatori come Murari e Masenghini producevano anche un mazzo da 52 carte, utilizzato per il gioco del Dobellone.

Caratteristiche delle carte trentine

Il mazzo trentino è formato da 40 carte (ne esisteva anche uno da 36, ma non viene più stampato), divise in quattro semi: coppe, spade, bastoni e denari. Ciascun seme conta dieci carte: le numerali (dall’asso al 7) e le figure, ossia il fante, il cavaliere e il re, rappresentate a figura intera; in particolare, il re è assiso sul trono (quello di denari è contrassegnato dal cerchio bianco dove un tempo veniva apposto il bollo) mentre il cavaliere è raffigurato in dorso ad un cavallo bianco; i fanti di spade e bastoni impugnano una spada e un bastone in ciascuna mano, mentre quello di denari regge un simbolo del seme nella mano destra. Il fante di coppe è leggermente più caratteristico, in quanto presenta anche un cane aggrappato alla gamba destra. Le carte numerali sono molto simili a quelle del mazzo triestino e, in parte, a quelle trevisane. Anche gli assi, per quanto presentino un disegno semplificato, sono piuttosto caratteristici. Quello di coppe è rappresentato come una grossa coppa a base esagonale, come quelle triestine e trevisane, sul quale è raffigurato un Cupido con arco e freccia. L’asso di denari è la carta dal disegno più ricercato: un cameo centrale è arricchito da una doppia decorazione floreale; l’asso di spade ricorda quello del mazzo bresciano: una spada, sorretta da una mano, all’interno di una corona in cui è inscritta anche un ornamento floreale simmetrico; un disegno simile è utilizzato per l’asso di bastoni: una mano (da sinistra) regge un’asta decorata con motivi geometrici con davanti un nastro, a sua volta abbellito da semplici motivi vegetali.

Giochi con le carte trentine

Trattandosi di un mazzo da 40 carte, quello trentino consente di praticare numerosi giochi diffusi ed apprezzati in tutta Italia; in particolare, è possibile giocare a Scopa, Scopone, Briscola e Tressette, incluse tutte le relative varianti. A questi si aggiunge un gioco tipico di alcune valli della provincia di Trento, il già citato Dobellone, per il quale serve un mazzo da 52 (ormai più raro di quello standard). Noto anche come “Dobelon” (“due molto bello”), può essere considerato una variante regionale della Scopa, assimilabile anche ad un altro gioco di carte tipico del Veneto (lo “Scarabocion”). Il Dobellone si gioca in quattro (due contro due); il mazziere distribuisce a ciascun giocatore 12 carte coperte, ponendone quattro scoperte sul tavolo. Le regole di presa sono molto simili a quelle della scopa; fanno eccezione l’asso (che può prendere tutte le carte, ma senza fare scopa) e le figure; a queste ultime non è assegnato un valore numerale ma solo la capacità di presa sulle altre figure corrispondenti. I re hanno valore di matta e possono assumere qualsiasi valore, a discrezione del giocatore. Altra differenza con la Scopa è che la presa non è obbligatoria. Vince la partita la coppia che totalizza per prima 200 punti; il punteggio è determinato dai punti di mazzo e di presa. Il Dobellone prevede la scopa ma, a differenza del gioco omonimo nella sua versione tradizionale, la coppia che realizza la presa totalizza tanti punti quant’è il valore della carta di presa (se, ad esempio, un giocatore fa scopa con il 6, la scopa varrà 6 punti). Una coppia può fare anche il Dobelon se totalizza i seguenti 6 punti di mazzo:
  • Carte: 2 punti a chi prende 27 o più carte;
  • Spade: 1 punti a chi prende 7 o più carte di spade;
  • Dieci di denari o fante di spade: 1 punto;
  • Dobelon, 1 punto a chi prende il 2 di spade.

Carte genovesi, tutto quello che c’è da sapere

Le carte genovesi sono diffuse in tutte la Liguria e vengono utilizzate anche in alcune zone della Toscana settentrionale, in particolare le province di Massa e Carrara. Questo mazzo regionale è di seme francese, così come gli altri del Nord-Ovest (piemontese e milanese) ed è caratterizzato dalla spiccata affinità con le carte di tradizione franco-belga.

Carte da gioco genovesi, storia di questo mazzo

L’attuale iconografia delle carte genovesi deriva direttamente dal cosiddetto “mazzo belga”, detto anche “mazzo di Parigi”, stampato per la prima volta nel 1853. A metà Ottocento, infatti, il fabbricante Baptiste-Paul Grimaud decise di creare delle carte da gioco simili a quelle francesi da destinare all’esportazione; l’incarico fu affidato a Louis Badoureau, che disegnò il mazzo – praticamente identico a quello in uso ancora oggi anche in Belgio – verso il 1860. Dopo essere stato utilizzato dapprima nei casinò, il mazzo si arrivò anche in Liguria e in altre zone dell’area mediterranea. Naturalmente, la diffusione delle carte da gioco a Genova e in Liguria è di molto antecedente al XIX° secolo. Già alla fine del Seicento, infatti, un editto (datato 1698), rendeva obbligatorio l’utilizzo delle carte del Dauphiné (l’antica provincia francese del Delfinato) nei territori del Ducato di Savoia e, probabilmente, tale obbligo era esteso anche all’attuale Liguria. Le tracce di questo provvedimento sono rimaste in alcuni mazzi in cui la donna di picche ha un simbolo del Delfinato sulla spalla. Risale, invece, al 1799 una testimonianza più evidente della grande diffusione delle carte da gioco a Genova: una legge, approvata dai Serenissimi Collegi, dal Minor Consiglio e dal Gran Consiglio tra aprile e giugno, elenca tutti i ventisei giochi di carte allora permessi in città.

Caratteristiche delle carte genovesi

La versione più diffusa del mazzo genovese conta 40 carte, benché ne esistano varianti meno diffuse da 36 e 52 carte, divise in quattro semi: picche, cuori, quadri e fiori. In dialetto ligure, i semi hanno denominazioni che ricordano, in parte, quelle dei semi spagnoli: dinae (denari) per i quadri, cuppe per i cuori, spoe o spa (spade) per le picche e sciui o sciue per i fiori. Ogni seme conta sette carte numerali (o dieci, nei mazzi da 52) e tre figure; i numerali rappresentano, in ordine progressivo, le cifre da 1 a 7 (o fino a 10) mentre le carte restanti raffigurano il fante, la regina e il re. Le figure sono speculari come quelle del mazzo milanese, con la sola differenza che nelle carte genovesi sono divise in diagonale anziché in orizzontale. Le carte standard misurano 58×88 mm ed hanno una forma piuttosto regolare. Dal punto di vista iconografico, le figure sono pressoché identiche a quelle del mazzo belga, come si evince dal fante di fiori, raffigurato con uno scudo ogivale recante le armi di Spagna. Inoltre, le carte genovesi conservano il verde tra i colori delle vesti delle figure, laddove le carte francesi presentano il colore blu. Per il resto, i personaggi sono raffigurati in modo elegante e ricco di dettagli, indossano vesti vaporose dai colori sgargianti (giallo, verde e rosso). Tra le peculiarità delle singole figure, si segnala la donna di picche, l’unica ad essere raffigurata di profilo anziché frontalmente; il re di quadri è l’unico a non avere le mani in vista mentre gli altri reggono uno scettro (re di picche e di fiori) o una spada corta (re di cuori). Rispetto alle carte di derivazione franco-belga, su quelle genovesi mancano gli indici, tranne rare eccezioni.

Giochi carte genovesi: quali sono?

Con le carte genovesi è possibile fare tutti i giochi che richiedono un mazzo da 40 carte, a partire da quelli più popolari come la Scopa, il Tressette, la Briscola e lo Scopone; si può giocare anche a Baccarà, con il mazzo da 52. Tipico dell’area ligure è la Cirulla, una variante piuttosto complessa della Scopa tradizionale. Noto anche come Cirolla o Ciapachinze (“acchiappaquindici”), si gioca in due (uno contro uno) o in quattro (due contro due). Il gioco inizia allo stesso modo della Scopa: il mazziere distribuisce tre carte coperte ad ogni giocatore e mette sul tavolo quattro carte scoperte; se queste assommano a 15 o 30, il mazziere le raccoglie e mette a segno una o due scope. Per il resto, il gioco si sviluppa in maniera identica alla Scopa; a cambiare sono le prese e le accuse. Per quanto riguarda le prime, la Cirulla prevede, oltre a quella semplice (con una carta se ne prende un’altra uguale), la presa da 15, possibile quando la somma con la carta calata e una o più presenti sul tavolo è uguale a 15. Con la presa d’asso, invece, un giocatore può, calando un asso, può effettuare una presa da 15 oppure prendere un asso dal tavolo; in caso contrario, può prendere tutte le carte e mettere a segno una scopa. Le accuse nella Cirulla sono: la “bàrsega” o “buona da tre”, e la “buona da dieci”. La prima vale 3 punti e viene assegnata al giocatore che ha in mano tre carte la cui somma è inferiore a dieci; la seconda, invece, vale dieci punti ed è riconosciuta a chi ha tre carte uguali in mano. Le accuse vanno ‘dimostrate’ facendo vedere le carte agli altri giocatori. Ai fini dell’assegnazione dei punti, il 7 di cuori – detto “matta” – può assumere qualsiasi valore numerale da 1 a 10, a patto che serva per una bàrsega, una buona da dieci o una presa da 15. Il calcolo del punteggio è molto simile a quello della scopa ma prevede anche la Cirulla “piccola” (3 punti a chi raccoglie asso, 2 e 3 di quadri) e la “grande” (da 5 punti per il giocatore che prende le figure di quadri).figure di quadri).

Carte triestine: una storia affiscinante per un mazzo mitico

Diffuse a Trieste e in Bisiacaria, oltre che in alcune zone di Slovenia e Croazia (Istria e Dalmazia), le carte triestine sono un mazzo regionale di seme italiano, molto simili a quelle trevigiane in uso nel resto del Friuli e in Veneto. I due mazzi presentano numerose analogie, sia per quanto concerne l’iconografia sia per lo stile dei semi, con le caratteristiche scimitarre curve a simboleggiare il seme di Spade.

Carte da gioco triestine: la storia

Le carte triestine derivano direttamente dalle trevisane, diffuse in Veneto e Friuli, come si evince dalle numerose affinità grafiche. Treviso vanta una tradizione molto antica in materia di carte da gioco, testimoniata da un mazzo quattrocentesco molto simile a quelli importati dagli arabi nei secoli precedenti. Nel corso della prima metà dell’Ottocento, mentre le carte trevigiane assumono progressivamente un disegno definitivo (molto simile a quello attuale), si registra l’avvio della produzione del mazzo triestino, probabilmente per iniziativa del fabbricante di carte Giovanni Battista Marcovich (o Marcovicii) che, nel 1837, acquista la fabbrica che Bartolomeo Mengotti, dopo un apprendistato in Veneto, aveva aperta a Trieste nel 1813. La produzione di carte da gioco in città ricevette nuovo slancio nel Secondo dopoguerra quando una famosa azienda di Trieste, che all’epoca fabbricava cartine per sigarette, cominciò a dedicarsi alle carte regionali, dal momento che le sigarette preconfezionate importate dagli americani avevano fatto calare la richiesta di cartine.

Caratteristiche delle carte triestine

Il mazzo triestino si compone di 40 carte, divise in quattro semi (denari, spade, coppe e bastoni); ciascuno di questi conta dieci carte, che includono sette numerali (dall’1 al 7) e tre figure, ossia un fante, un cavaliere e un re, raffigurate in maniera speculare. Curiosamente, mentre le numerali sono indicizzate in maniera progressiva con le cifre dall’1 al 7, le figure sono contrassegnate con i numeri 11, 12 e 13 riportati, rispettivamente, sul fante, il cavaliere e il re. Questa peculiarità è dovuta al fatto che in origine il mazzo includeva altre tre carte numerali (l’8, il 9 e il 10) e, di conseguenza, contava 52 carte anziché 40 (se ne può ammirare uno esposto al Museo Correr di Venezia). Altra particolarità è la presenza di una banda bianca che divide le figure a metà e ne riporta la descrizione (“Caval di danari”, “Fante di bastoni”, “Re di spade” e così via) che, a differenza delle immagini, non è speculare ma leggibile solo in un verso. Le carte numerali sono tutte indicizzate, ossia riportano la cifra corrispondente in alto a destra e in basso a sinistra; su quelle di Bastoni, l’indicazione numerica è riportata anche all’interno del rombo individuato al centro della carta dall’intersezione delle figure. Lo stesso dicasi delle numerali di spade, con la sola differenza che l’incrocio delle lame individua due spazi romboidali (uno in alto e uno in basso), fatta eccezione per il 3 di spade, in cui uno dei due numeri ‘3’ è riportato sull’elsa della spada centrale. Le carte triestine riprendono anche un’altra caratteristica di quelle trevigiane: le iscrizioni sugli assi di ciascun seme. Si tratta, anche in questo caso, di motti o proverbi, che variano anche in base all’azienda che fabbrica il mazzo. Di seguito, quelli più diffusi:
  • Sull’asso di denari: “Son gli amici molto rari quando non si ha denari” (in genere nei mazzi Dal Negro), “Oggi val molto di più il denar che la virtù” e “Non val saper a chi ha fortuna contra” (presente anche nei mazzi trevisani);
  • Sull’asso di spade: “Il gioco della spada a molti non aggrada” oppure “La spada corregge chi offende la legge”;
  • Sull’asso di coppe: “Una coppa di buon vin fa coraggio fa mor bin”, ossia “una coppa di buon vino fa morir bene”;
  • Sull’asso di bastoni: “Molte volte le giocate van finire a bastonate” oppure “Avere un bel baston in mane sempre bon”.
Per concludere, l’asso di denari un tempo ospitava l’imposta di bollo mentre oggi è raffigurato come un disco dorato; l’asso di spade, invece, è particolarmente decorato: l’arma a punta tonda, oltre ad essere cinta da una corona, è affiancata da due grifoni alati. Di contro, le figure non sono molto caratterizzate e appaiono più stilizzate rispetto a quelle presenti sulle carte trevigiane.

Giochi carte triestine, non solo la briscola

Le carte triestine possono essere impiegate per qualsiasi gioco da tavolo che preveda l’utilizzo di un mazzo da 40 carte: Scopa, Scopone, Briscola e Tressette sono certamente i più noti. A questi se ne aggiungono altri, diffusi a livello locale come, ad esempio, il Cotecio (o “Cortecio”), noto anche in Emilia e Lombardia. A Trieste si gioca secondo regole molto simili alla variante bergamasca; ad una partita possono partecipare al massimo 7 giocatori, ciascuno dei quali riceve 5 carte; lo scopo è fare meno punti possibili. Il gioco si svolge così: chi è di mano, cala una carta e gli altri hanno l’obbligo di rispondere cercando di non prendere. La presa va a chi ha giocato la carta con il valore più alto, in base alla seguente gerarchia: Asso, Re, Cavallo, Fante, Sette, Sei, Cinque, Quattro, Tre, Due. Il punteggio si calcola così: 6 punti per l’asso e l’ultima presa, 5 per il re, 4 per il cavallo, 3 per il fante. Il giocatore che prende tutte le carte fa “cappotto” che implica un punto in più per sé e uno in meno per gli avversari. Chi ha perso le prime quattro mani può “andar a trato”, ossia annullare l’ultima giocata. Le regole triestine prevedono anche che un giocatore possa “indottorarsi” o “indotorarse”, un espediente che gli consente, una sola volta, di rientrare in gara.

Carte bresciane, i giochi e la loro storia

Tipiche della provincia di Brescia, le carte bresciane sono il mazzo utilizzato in provincia di Brescia; pur essendo di seme italiano come quelle diffuse nella vicina Bergamo, presentano alcune differenze significative, soprattutto dal punto di vista iconografico.

Storia delle carte bresciane

Le carte bresciane hanno origini molto antiche; la struttura e il disegno dei semi presenta numerose analogie con alcuni mazzi di origine araba (i ‘naibbi’) risalenti al XII° secolo, oggi conservati al Museo Topkap di Istambul. È probabile che le carte da gioco orientali siano arrivate nel Bresciano a seguito della conquista da parte di Venezia (1426); non a caso, come quelle bergamasche, anche le carte bresciane derivano dal mazzo trevisano (o “veneto”) in uso già nel Cinquecento nei territori sottoposti al dominio della Serenissima. Una delle testimonianze dell’antica tradizione cartaria in area bresciana è un’ordinanza cittadina risalente al 23 gennaio del 1698 che sanciva l’apposizione del bollo rosso sul re di bastoni e il re di spade; fuori città, invece, il bollo (di colore verde), veniva apposto sul tre di coppe e il tre di denari. La produzione di carte da gioco a Brescia si consolidò notevolmente, tant’è che a metà Ottocento in città operavano due fabbricanti: la Ditta Francesco Mutinelli e la più nota Accurata Fabbrica Cassini&Salvotti che all’Esposizione Bresciana del 1904 vantava una produzione di duecentomila mazzi, non solo bresciani ma di altri tipi regionali italiani. I mazzi fabbricati da Cassini, oggi piuttosto rari, venivano venduti in astucci decorati con la Vittoria Alata; la ditta produceva anche “cartine” in formato ridotto per i bambini, uscite di produzione dopo il 1972, a causa dell’abolizione del bollo. Agli anni Settanta risale anche un tentativo di ‘variazione sul tema’ da parte della Italcards: l’azienda produsse un mazzo bresciano da 40 carte (con disegno leggermente diverso) che non ebbe particolare successo.

Carte da gioco bresciane: quali sono le caratteristiche

A differenza di quello bergamasco, il mazzo bresciano viene stampato soltanto nella versione da 52 carte e presenta figure intere anziché speculari. I semi sono quattro (spade, coppe, fanti e bastoni) e contano tredici carte ciascuno; quelle numerali vanno, progressivamente, dall’1 al 10 mentre le tre figure sono il fante, il cavaliere e il re. Le misure estremamente ridotte (43×88 mm) ne fanno le carte regionali più piccole d’Italia. L’iconografia tradizionale prevede che le figure siano raffigurate in modo semplice, con pochi dettagli; le vesti sono decorate con motivi geometrici e colori vivaci (rosso, blu e giallo). Una delle carte più caratterizzate è il fante di coppe: la figura ha un cane bianco vicino alla gamba destra e per questo in dialetto prende il nome di “fant cagnì” mentre per via del mantello che porta sulle spalle viene chiamato anche “fant gòp”, ossia “fante gobbo”. Poiché nell’iconografia cristiana anche San Rocco è raffigurato con al fianco un cane, il fante di coppe del mazzo bresciano viene spesso chiamato anche “san Ròch”. Altra carta facilmente riconoscibile è il re di bastoni, sul quale c’è raffigurato un cerchio dove, fino al 1862, era apposto il bollo. Le spade, come in tutti i mazzi di seme italiano, sono disegnate come scimitarre dalla lama particolarmente incurvata; nei numerali si incrociano definendo dei rombi, all’interno dei quali trovano posto delle semplici decorazioni (simili a stemmi araldici) tranne che nel 7 e nel 9, in cui sono riportate le cifre del numerale della carta. Nel due di spade, lo spazio delimitato dall’incrocio delle due lame è decorato con lo stemma dello stampatore o una bandiera; in dialetto bresciano, questa carta viene chiamata “figa de fèr” oppure “felépa sènsa péi” (“vagina di ferro” o “senza peli”) o, ancora “du fì” (“due fino”) mentre in alcuni giochi è “la mata” (ossia una carta dal valore particolare). Per simmetria, il due di bastoni è la “figa de lègn”. Altra denominazione dialettale è quella riservata al due di denari, alla quale spesso i giocatori fanno riferimento come “i bale de l’orso” (i testicoli dell’orso) oppure “i bale de fra Giöle” (“le palle di frate Giulio”), dove “bale” sta sia per “testicoli” che per “frottole”. Non a caso, si tratta anche di un’espressione dialettale per indicare un’affermazione palesemente falsa. Il dieci di denari, invece, è il “des bù” (ovvero il “dieci buono”). Infine, l’asso di coppe viene chiamato anche “angiulina”, per via dell’angioletto raffigurato sopra la coppa, e il quattro di spade, che di solito presenta una figura femminile nello spazio interno alle lame incrociate, è detto la “Madonnina dei prati”.

Giochi con le carte bresciane

Le carte bresciane sono molto versatili, in quanto consentono di fare numerosi giochi, anche quelli che richiedono un mazzo da 40 carte come la Scopa, lo Scopone o la Briscola. Tipico della provincia bresciana è la Cicera bigia, da giocare con il mazzo completo da 52. Si tratta di una variante della Scopa, giocata fin dal Settecento. Detta anche “Ciccera biccera”, si gioca in quattro (due contro due); ogni giocatore riceve dodici carte coperte mentre le quattro restanti vengono messe scoperte sul tavolo. Il gioco si sviluppa in maniera molto simile alla Scopa, con la sola differenza che le figure non hanno valore di presa, se non rispetto ad altre figure (con un re si può prendere solo un alto re e così via). Vince chi fa più punti o prende tutte le carte dello stesso seme (Napoleone). I punti di mazzo sono:
  • Carte: 2 punti alla coppia che prende 27 carte; in caso di parità, un punto a testa;
  • Spade: un punto a chi prende almeno 7 carte di spade;
  • Napola: si assegna il punteggio pari alla carta più alta di una sequenza continua dello stesso seme;
  • Mata: 1 punto per chi prende il due di spade;
  • Dieci denari: 1 punto;
  • Fante di coppe: 1 punto.
I punti di gioco sono la scopa (presa di tutte le carte sul tavolo), Picchiata, Simili (presa con stessa figura o seme), Quadriglia e Cinquina (presa di tre e quattro carte).

Carte bolognesi, tutto quello che serve sapere

Note anche come “Primiera Bolognese”, le carte bolognesi sono un mazzo regionale utilizzato perlopiù in Emilia, nella zona di Cento (tra le province di Bologna e Modena); nel resto della regione si utilizzano principalmente le carte piacentine e romagnole. Quelle bolognesi sono carte di seme italiano, come testimoniato anzitutto dal disegno curvo delle spade, assimilabile a quello caratteristico di altri mazzi regionali diffusi in Italia settentrionale.

Storia delle carte bolognesi

Il mazzo della Primiera Bolognese, così chiamato per distinguerlo dal “Tarocchino bolognese”, ha origini piuttosto antiche, risalenti probabilmente al XV° secolo. All’epoca, infatti, il gioco della primiera era già molto noto nell’Italia centro-settentrionale, tant’è che già all’inizio del Cinquecento, il numero di carte che componeva il mazzo originario fu ridotto da 52 a 40. Nello stesso periodo, il “Tarocchino – probabilmente derivato da mazzi importati da Milano o dalla vicina Ferrara – subì la stessa sorte, passando da 78 a 62 carte. A riprova del fatto che a Bologna si utilizzasse questo tipo di mazzo già nel corso del XVI° secolo, almeno, vi è l’autorizzazione papale alla riscossione dei tributi sulle carte da gioco, concessa nel 1588 ad Achille Pinamonti. Il documento stabiliva una tassa di 10 soldi per i mazzi di tarocchi e 5 per quelli da primiera. A partire dal Seicento, nella zona del bolognese si diffusero le carte piacentine (a seme spagnolo) mentre a est divennero sempre più popolari quelle che oggi chiamiamo romagnole. Le carte bolognesi, stampate con le figure speculari a partire dal 1770 circa, rimasero in uso principalmente nelle zone rurali della parte nord-occidentale della provincia di Bologna. A dicembre 2020 è stato stampato un mazzo ‘bolognese’ in cui i semi tradizionali sono stati sostituiti con i simboli della tradizione culinaria del capoluogo emiliano, ovvero vino, tortellini, coltellina per tagliatelle e mattarello.

Caratteristiche delle carte da gioco bolognesi

Le carte della Primiera Bolognese sono in tutto 40, divise in quattro semi (denari, coppe, spade e bastoni)che contano 10 carte ciascuno. Ogni seme include sette carte numerali (progressive dall’1 al 7) e tre figure: fante, cavaliere e re. Per via delle dimensioni (49×104 mm) sono, assieme alle trevigiane, le carte regionali più lunghe d’Italia e presentano una forma particolarmente stretta. Tutte le carte presentano un disegno speculare, fatta eccezione per l’asso di denari: la cornice circolare nera, che fino al 1972 ospitava l’imposta di bollo, presenta una decorazione (due foglie verdi) solo da un lato. Nel complesso, le carte bolognesi presentano un disegno dettagliato, impreziosito dal ricorso a colori vivaci. Le spade del seme omonimo presentano una lama particolarmente incurvata, caratteristica evidenze anche nei mazzi bresciani e trevisani. Peculiarmente, l’asso di spade è raffigurato come una sorte di animale a due teste (un rapace o un drago) con il corpo curvo; questo disegno è presente già su alcuni mazzi realizzati nel Seicento. Nelle carte numerali di spade, fatta eccezione per il due, le lame non hanno un’elsa ma presentano le doppie punte. Per quanto riguarda le figure, tutte sono accompagnate da un numero variabile di semi: sei sul Re di denari, quattro sul Re di coppe, due su tutte le altre.

Giochi carte bolognesi: quali sono

Essendo un mazzo da 40 carte a seme italiano, la Primiera bolognese consente di giocare una vasta gamma di giochi tipici della tradizione nostrana. Pertanto, con questo mazzo è possibile giocare a Scopa con le relative varianti (inclusi i vari tipi di Scopone e il Rubamazzetto), Tressette e Briscola, sia tradizionali che nelle svariate versioni diffuse in tutta Italia. Caratteristico (anche) dell’area emiliana è il cosiddetto “Straccia camicia”, noto anche come “pataja” in dialetto reggiano e “Pela gallina”, nelle province romagnole. Si tratta di un gioco molto semplice, adatto anche ai bambini. In genere si gioca in due; a ciascun giocatore vengono date 20 carte coperte ciascuno. Se i giocatori sono più di due, si divide il mazzo in parti uguali, così che ognuno riceva lo stesso numero di carte. Non esiste una specifica gerarchia tra semi, le uniche carte di valore sono gli assi, i 2 e i 3. Il gioco si svolge in maniera molto semplice: il giocatore di turno cala una carta e gli altri rispondono con una del proprio mazzo; quando uno dei giocatori mette sul tavolo un asso, un 2 o un 3, gli altri devono giocare un numero di carte corrispondenti; se, tra queste, non c’è una carta ‘vincente’, il giocatore effettua la presa, aggiungendo le carte dell’avversario al proprio mazzo. il gioco prosegue così fin quanto un giocatore non riesce a prendere tutte le carte degli altri.

Carte trevisane: la storia e le caratteristiche

Note anche come ‘trevigiane’ o ‘venete’, le carte trevisane sono un mazzo regionale utilizzato sia in Veneto che in Friuli Venezia-Giulia, eccezion fatta per Trieste. Appartengono al gruppo dei semi latini e, in particolare, rientrano nelle carte di seme italiano assiemealle trentine e alle triestine.Il disegno è ricercato e ricco di dettagli, caratterizzato da uno stile vagamente barocco e dal ricorso a colori vivaci, soprattutto rosso, blu e giallo.

Carte trevigiane: la storia

La tradizione delle carte da gioco nel Nord-Est ha origini molto antiche; la genesi di questo mazzo, come gli altri diffusi nel resto d’Italia, risale al periodo a cavallo tra il 13° e il 14° secolo, come testimoniato dall’affinità con i più antichi mazzi di carte arabe sopravvissuti fino ai giorni nostri. Nel corso dei secoli, ovviamente, il disegno ha subito notevoli variazioni; in un mazzo risalente al 1462 e oggi conservato in Spagna, presso il museo H. Fournier a Vitoria-Gasteiz, tutti i numerali di spade presentano una corona. Uno molto più recente, databile attorno alla metà dell’Ottocento, si caratterizza per la presenza del Leone di Venezia su alcune carte di denari (l’asso e il 4) e lo stemma di Marsiglia sul re di bastoni e il 2 di denari. Il disegno utilizzato ancora oggi si è consolidato verso l’inizio del 19° secolo; un mazzo stampato a Venezia da Luchini (1807 – 1814) con la tecnica della silografia mostra le figure intere e il dorso rivoltinato con motivo geometrico; a partire dal 1830, le figure verranno stampate divise in due in maniera speculare. Fino al 1862, il bollo trova posto sul re di bastoni; dopo tale data, viene apposto sull’asso di denari mentre lo spazio rimasto vacante sulla carta della figura viene colmato con lo stemma della città dello stampatore o quello dei Savoia. Quest’ultimo viene raffigurato anche sul 4 di denari nei mazzi antecedenti al 1945; su alcuni esemplari di epoca fascista, lo scudo sabaudo è affiancato dai fasci littori. L’ultima evoluzione significativa del mazzo risale al 1960, ultimo anno in cui la Dal Negro ha prodotto letrevisane “rivoltinate”(ossia con la figura sulla carta inserita in un motivo a cornice) da 52, con il bollo fiscale apposto sull’asso di denari.

Carte venete: catteristiche

I moderni mazzi di carte trevisane possono contare sia 40 che 52 carte e, in alcuni casi, comprendere anche una doppia “matta”.Rispetto a quelle trentine, presentano una forma particolarmente allungata, dovuta alle dimensioni (49×104 mmo 51×103 mm), che ne fanno – assieme alle bolognesi – le carte più lunghe tra quelle regionali italiane. Le carte sono divise in quattro semi: coppe, denari, spade e bastoni. Nei mazzi da 40, le carte numerali vanno dall’1 al 7, mentre quelli da 52 includono anche l’8, il 9 e il 10; in entrambi i casi, il mazzo è completato dalle tradizionali ‘figure’ (il re, il cavaliere e il fante), divise specularmente a metà. La caratteristica più peculiare del mazzo trevisano è certamente la ricercatezza del disegno, che talvolta rende le carte di non facile comprensione (per questo sono riportati i numeri in basso a destra e in alto sinistra), e la peculiarità di certi dettagli. Su ogni asso, ad esempio, è riportato un proverbio o un modo di dire; ne esistono diverse varianti ma partire dall’Ottocento, in un mazzo standard sono riportati per lo più i seguenti:
  • Per un punto Martin perse la capa”, versione italiana della locuzione latina “Uno pro punctocaruit Martinus Asello”, campeggia sull’asso di coppe, caratterizzato da un doppio profilo bifronte (uno triste e uno sorridente) raffigurato sui due lati del collo della coppa;
  • Non val sapere a chi ha fortuna contra” circonda l’asso di denari, rappresentato come una sorta di gioiello o corona;
  • Se ti perdi tuo danno” si legge sulla fascia che attornia l’asso di bastoni, raffigurato come una verga tenuta da una mano (a sinistra dell’impugnatura vi è un piccolo uccello) che culmina in una decorazione bifronte al di sopra di un capitello;
  • Non ti fidar di me se il cuor ti manca” figura sull’asso di spade, anch’essa caratterizzata da un disegno molto ricco: due uccelli variopinti trovano posto ai fianchi dell’elsa mentre una corona cinge la parte alta della spada.
Le numerali dall’8 al 10 del seme di bastoni sono particolarmente ricche; l’incrocio a ‘X’ dei bastoni individua un rombo centrale, all’interno del quale è raffigurata una scena rurale. Le analoghe del seme di spade, invece, si presentano molto più barocche: le lame sono ricurve e si incrociano in alto e in basso, descrivendo un doppio rombo con all’interno una decorazione floreale. Nel 9, dato il numero dispari di elementi grafici, la decorazione superiore è sostituita da una grande elsa di una spada posta in verticale tra le altre otto, secondo un pattern caratteristico anche delle altre numerali dispari dello stesso seme.

Giochi carte trevisane: quali sono

Oltre a quelli più comuni (Scopa, Briscola e Tressette), con le carte da gioco trevigiane è possibile fare diversi giochi di tradizione locale. Il Foracio (detto anche Foraccio o Scarabocio) è simile allo Scopone e si gioca con il mazzo da 52, da distribuire tutte assieme o in tre tornate. Le modalità di presa sono identiche a quelle della Scopa, con la sola eccezione dell’asso ‘pigliatutto’. Il sistema di punteggio, però, è diverso: il 2 e il fante di spade valgono un punto, così come il 10 di denari. Un punto viene assegnato anche al giocatore che ha preso almeno sette carte di spade mentre chi ha più di 27 carte guadagna due punti. Gli altri punti sono la Napoli (una scala di carte dello stesso seme composta almeno da asso, 2 e 3) e la Scopa. Di questo gioco esiste anche una variante denominata Zobelon. LaVecia (o Peppa tencia) è una variante dell’Uomo Nero e si può giocare con mazzi da 40 o 52 carte; lo scopo del gioco è semplice: scartare tutte le carte e non restare in mano con la ‘vecia’, ossia il fante di spade. Ogni giocatore, una volta ricevute le proprie carte, scarta quelle uguali che ha in coppia e i fanti, tranne quello di spade. Fatto ciò, ogni giocatore pesca una carta coperta dal mazzo dell’altro, continuando a scartare le coppie di carte uguali: vince chi resta per primo senza carte.

Carte milanesi, tutto quello che c’è da sapere

Le carte milanesi sono di seme francese, così come le piemontesi e le liguri. Benché vengano spesso indicate anche come “lombarde”, non sono diffuse in tutta la regione, ma soltanto nella parte occidentale. In Lombardia, infatti, coesistono altri due mazzi regionali: le carte bergamasche e quelle bresciane (molto diverse da quelle milanesi, in quanto di seme italiano).Dal punto di vista iconografico, si contraddistinguono per una raffigurazione accurata e molto raffinata delle figure.

Storia delle carte milanesi

La diffusione delle carte da gioco in Italia si colloca tra il Duecento e il Trecento e si deve, con tutta probabilità, agli spagnoli; questi introdussero i ‘naibi’, ossia le carte importate in Spagna dagli Arabi Mamelucchi, nelle quali già si ritrovano i semi delle carte di tipo ‘spagnolo’. Per quanto riguarda Milano e, più in generale, la Lombardia, si sa con certezza che le carte da gioco fossero diffuse già alla fine del 14° secolo, alla corte di Gian Galeazzo Visconti (1351 – 1402). Sua figlia, Valentina, sposò Luigi di Turenna nel 1389, portando in dote un mazzo di “carte di Lombardia” mentre suo figlio minore, Filippo Maria, si appassionò fin da piccolo ai giochi di carte, tanto da commissionare al suo precettore, Marziano da Tortona, un “mazzo degli dèi”, composto da 36 (o 40) carte numerali alle quali si aggiungevano 16 carte, divise in quattro semi: Aquile, Falconi, Cani e Colombe.Nel corso di tutto il Quattrocento, vennero realizzati diversi mazzi di carte alla corte dei Visconti: il celebre mazzo “di Modrone” è attribuito da molti studiosi a Galeazzo Maria Sforza e Bona di Savoia (1468 circa). Dalla corte viscontea proviene anche il “mazzo Colleoni”, noto anche come “Tarocchi dei Visconti”, commissionato da Filippo Maria Visconti o da sua figlia, Bianca Maria. Questo mazzo è particolarmente importante perché, di fatti, divenne il modello per tutti gli altri mazzi lombardi; la produzione venne affidata al pittore e miniatore Bonifacio Bembo, attivo a Cremona a metà del Quattrocento, come dimostrato dalle fonti storiche che attestano alcune commesse alla bottega dei Bembo tra il 1451 e il 1452. Le carte milanesi attuali si standardizzano nel corso dell’Ottocento. Una versione ‘arcaica’, derivata dalle varianti veneziane e romagnole del mazzo Lyon II, presenta le figure intere e il bollo austriaco sul re di cuori, raffigurato mentre regge un falco con la mano sinistra. Il disegno definitivo, ad opera probabilmente di Teodoro Dotti, risale al 1860 circa epresenta le figure speculari divise a metà.

Carte da gioco milanesi: caratteristiche

Il mazzo milanese, come gli altri regionali diffusi in Italia, conta 40 carte, divise in quattro semi (picche, fiori, quadri e cuori) da dieci carte ciascuno. Di queste, sette rappresentano le cifre dall’1 al 7 mentre le restanti tre sono le tre ‘figure’, ovvero il re, la donna e il fante; come nelle carte genovesi, sono ‘doppie’, ossia rappresentate in maniera speculare, divise in orizzontale. Altra peculiarità di queste carte è il formato: misurano 50×94 mm, risultando così piuttosto strette e lunghe. A rendere caratteristico questo mazzo è la presenza del Biscione Visconteo, simbolo araldico del Ducato di Milano, raffigurato sul petto del fante di fiori.

Giochi carte milanesi

Le carte milanesi consentono di fare qualsiasi gioco per il quale sia necessario un mazzo da quaranta carte come, ad esempio, Scopa, Scopone, Tressette e Briscola, con le relative varianti. Due di queste sono particolarmente diffuse in Lombardia. La Briscola Cinquecento (detta anche “Marianna”), variante della Briscola tradizionale, si può giocare in due, tre o quattro giocatori (in doppia coppia). La gerarchia delle carte e le modalità di calcolo del punteggio sono le stesse della Briscola standard; la sola differenza è costituita dalle “Marianne”, ossia l’accoppiata di re e cavallo dello stesso seme. La prima vale 40 punti, la seconda 60, la terza 80 e la quarta 100 punti. In alcune varianti ‘regionali’, la Marianna con cavallo e re del seme di briscola vale 40 punti mentre le altre valgono 20.Per il resto, le differenze con la Briscola tradizionale sono le seguenti:
  • Il mazziere consegna ad ogni giocatore cinque carte coperte anziché tre;
  • Non c’è un seme di briscola, fin quando un giocatore non dichiara una “Marianna”;
  • Quando un giocatore ha in mano una Marianna, deve dichiararla, mostrando le due carte agli altri giocatori;
  • Dopo la dichiarazione di una Marianna, il seme di briscola coincide con quello della Marianna;
  • Ogni qual volta un giocatore dichiara una Marianna, il seme relativo diventa il nuovo seme di Briscola.
Molto popolare in Lombardia è anche il Ciapanò, denominazione milanese del Traversone, una variante del Tressette. In sostanza, si tratta di un Tressette a perdere, ossia un gioco nel quale si punta a fare meno punti possibili, rinunciando alle prese e cercando di cedere le carte più forti ai propri avversari. In pratica, quando un giocatore cala una carta, gli altri cercano a turno di non superare quelle degli altri, giocando carte da punto (gli onori e le figure), così da costringere gli altri ad effettuare la presa, fermo restando l’obbligo di rispondere con una carta dello stesso seme. Se, durante una mano, un giocatore cede tutte le carte da punto, fa ‘cappotto’, e guadagna 11 punti.

Tutte le curiosità sulle carte piemontesi

Le carte piemontesi, così come quelle toscane e genovesi, fanne parte delle carte da gioco regionali a seme francese, diffuse soprattutto nel Nord Italia.Presentano una notevole similitudine con i mazzi francesi; le figure sono ritratte con uno stile ricercato e ricco di dettagli.

Carte da gioco piemontesi: la storia

L’origine delle carte piemontesi è affine ad altri mazzi di seme francese, in particolare quello toscano. È probabile che fossero in circolazione già tra le fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento. Diffuse dapprima presso le corti nobiliari e l’aristocrazia, le carte numerali accrebbero progressivamente la loro popolarità, affiancate dai tarocchi, molto diversi per disegno e composizione.

Caratteristiche delle carte piemontesi

Il mazzo piemontese si compone di 40 carte, ovvero quattro semi(picche, cuori, quadri e fiori)da dieci carte ciascuno. Sono due le principali caratteristiche distintive delle carte piemontesi; la prima è la ghirlanda ellittica che circonda gli assi, fatta talvolta eccezione per quello di cuori; la seconda è la rappresentazione delle figure: il re, la donna e il fante si presentano specchiati in orizzontale, come nei mazzi di carte di tradizione franco-belga e nei tarocchi piemontesi.Nelle carte genovesi, invece, le figure sono speculari in trasversale.In particolare, il fante regge un’alabarda nella mano sinistra; similarmente, il re – facilmente riconoscibile per la corona che ne cinge il capo –regge uno scettro, leggermente diverso a seconda del seme. La donna, invece, ha in mano un fiore.Curiosità: il formato standard (50×83 mm) è il più compatto tra le carte da gioco regionali italiane.

Giochi con le carte piemontesi

Contando 40 carte, il mazzo piemontese si presta alla maggior parte dei giochi più comuni, dalla scopa al tressette fino alla briscola, oltre ad alcuni di recente diffusione come, ad esempio, il burraco. A questi si affiancano diversi giochi tipici, diffusi per lo più in alcune zone della regione. Tra questi, uno dei più popolari è la Cirulla, che si gioca per lo più nel Basso Piemonte. Noto anche come “Ciapachinze”, ossia “acchiappaquindici”, rappresenta una variante locale – e particolarmente complessa – della scopa. La gerarchia delle carte, infatti, è la stessa: il re vale 10, la donna vale 9, il fante vale 8; le altre carte numerali corrispondono alle cifre dall’uno al sette. Si gioca in due o in tre oppure in quattro (2 contro 2). Il mazziere distribuisce a ciascun giocatore tre carte coperte e poi ne dispone quattro scoperte sul tavolo: se la somma equivale a 15, mette a segno una scopa; se, invece, il totale è pari a 30, il mazziere si aggiudica due scope. La presa può essere effettuata con le stesse regole valide per la scopa, raccogliendo una carta uguale o due o più carte la cui somma equivale al valore della carta giocata. In aggiunta, l’asso consente la presa di tutte le carte (è la “presa d’asso”, identica a quella del gioco “asso pigliatutto”), a meno che non vi sia un altro asso sul tavolo; la “presa di 15”, invece, è possibile quando la somma della presa e della carta calata equivale a 15. Quando un giocatore si ritrova con tre carte in mano la cui somma è minore di 10, ‘bussa’ e dichiara una “barsega”, ossia una “buona da tre” (che gli vale tre scope), facendo vedere le carte prima di cominciare la mano.Se, invece, un giocatore ha in mano tre carte uguali, bussa e mette a segno dieci punti (è la “buona da dieci”). Il sette di cuori (o di coppe, se si utilizzano carte di seme spagnolo) può essere utilizzato come jolly, assegnandogli un valore diverso dal sette, solo se ciò consente al mazziere di fare 15 o 30. Per il resto, i punti di mazzo coincidono con quelli della scopa tradizionale. In genere, vince chi totalizza per primo 51 punti. Molto popolare in Alta Langa è il “Trucco”, un gioco assai popolare in Spagna e nella maggior parte dei paesi dell’America Latina. Si gioca solitamente in quattro, con due squadre da due giocatori che si sfidano tra loro: uno è la ‘mano’, ossia il primo a giocare di mazzo, l’altro è il ‘piede’, e possono comunicare quando si gioca in squadra. In genere vince chi raggiunge per primo i 31 punti, ma molto dipende anche dalle varianti locali del gioco. Uno degli aspetti più caratteristici del Trucco è la gerarchia delle carte, trasversale rispetto ai quattro semi; naturalmente, dove si utilizzano carte di semi francesi, questi ultimi vengono fatti corrispondere agli equivalenti spagnoli. Le carte che valgono di più sono gli assi di spade e bastoni, seguiti dai 7 di spade e denari (“inviti”); poi, nell’ordine, i 3, i 2, gli altri assi (detti “bastardi”), re, cavallo, fante, gli altri sette (detti “falsi”) i 6, i 5 e i 4.Ad ogni giocatore vengono consegnate tre carte coperte; ciascuno ne scarta una per turno.In qualsiasi momento è possibile ‘scommettere’ con l’avversario, chiamando l’invito o il trucco (il primo prevale sul secondo). Ciascun giocatore può rispondere all’invito oppure no; nel primo caso, chi vince si aggiudica due punti, nel secondo viene riconosciuto un punto al giocatore che chiama l’invito. La risposta all’invito può essere anche un rilancio, pari o superiore, all’invito stesso. Per il calcolo dell’invito, si assegna ad ogni carta numerale il valore corrispondente (asso vale 1, 2 vale due e così via). Se si hanno in mano tre carte dello stesso seme si ha una “Flor” (o “Fro”), presente solo nelle varianti italiane; sulla Flor non si può bluffare: bisogna “cantarla”, ossia dichiararla, altrimenti si riceve una penalità.
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